di don Quintino Venneri*
“Nessun tempo va sottratto ai propri ritmi.
Nessun tempo va forzato ad essere altro.
Nessun tempo può erigersi come il tempo migliore:
il meglio sta solo nell’equilibrio che la vita ha conseguito
nel punto in cui è giunta a sé stessa”
Melchiorre, Prefazione a Le età della vita, di Romano Guardini
In questi giorni non possiamo celebrare il rito dell’Eucaristia!
È un cambiamento. E le reazioni possono essere – e, nei fatti, lo sono! – molto diverse: ognuno di noi, infatti, vive le circostanze della vita e della fede a partire dalla propria personalità.
Ma, in ogni caso, cambiare è un’occasione per fare verità. Per noi, opportunità per fare verità della nostra esperienza di fede, di Vangelo, di comunità.
Il cambiamento mi sveglia – se voglio e lo accolgo – e mi costringe a passare dalle risposte alle domande. Più semplicemente, i cambiamenti mi dicono che devo crescere.
Le indicazioni di sospendere le celebrazioni liturgiche date dai Vescovi sono state lette da alcuni come una resa allo Stato da parte della Chiesa, addirittura come un abbandono della fede. Altri hanno gridato allo scandalo per non aver ribadito in questa emergenza le esigenze e i rimedi spirituali. Per altri ancora, invece, le decisioni dei Vescovi hanno rappresentato un cedimento alla mentalità moderna mentre si era chiamati a resistere con eroismo per testimoniare i valori cristiani.
Circola, infatti, l’idea che si è autenticamente cristiani solo se si rimane in contrasto con lo spirito del tempo, come se il presente non avesse nulla da insegnarci, rispetto ad un passato in cui, invece, c’erano veri valori, autentica fede, autentica testimonianza. Non abitando nel presente, ci si ammala di nostalgia del passato. Già Agostino, in uno dei suoi discorsi, riconosceva che “si trovano molti che si lamentano del proprio tempo giudicando migliore quello dei nostri padri; ma se si potesse farli tornare a quel passato, anche di quello si lamenterebbero: in realtà uno giudica felice proprio il tempo passato perché, in quanto passato, non è ormai più suo. (Discorso 346/C). In realtà, ogni tempo, quindi anche l’attuale, è abitato e benedetto da Dio: anche l’oggi è tempo dello Spirito. Ogni oggi è e sarà tempo dello Spirito!
La nostra reazione alla mancanza dell’Eucarestia, insieme alla manifestazione di una sincera centralità che essa ha nella vita, ha rivelato tuttavia l’impressione che, per molti, la vita cristiana consista esclusivamente nella partecipazione ad un rito, da vivere nello spazio sacro.
In realtà, la vita di fede, ha un’estensione semantica molto più ampia, non si riduce alla ritualità ma – bisogna ribadirlo – accoglie la realtà, assumendone le inquietudini, le contraddizioni, i dubbi: la carne, cioè la nostra umanità, è il luogo della dimora di Dio: “A partire dall’Incarnazione avviene qualcosa di sconvolgente: il regime di contatto salvifico con Dio si trasforma radicalmente e la carne diventa lo strumento della salvezza: Verbum caro factum est, il Verbo si fece carne, scrive l’evangelista Giovanni e un autore cristiano del III secolo, Tertulliano, afferma: Caro salutis est cardo, la carne è il cardine della salvezza. (Benedetto XVI, Udienza generale del 5 gennaio 2011).
Non possiamo dunque partecipare al rito dell’Eucaristia.
Cosa ci resta?
Ci resta la quotidianità, quel tessuto inestricabile di relazioni, volti e storie che compongono il grande mosaico della vita. La quotidianità è lo spazio per officiare il culto esistenziale: Il giorno feriale, il quotidiano, per il cristiano è l’ambito della fede, la scuola della sobrietà, l’esercizio della pazienza, lo smascheramento salutare delle parole grosse e degli ideali fittizi, l’occasione silenziosa per il vero amore e per l’autentica fedeltà, il misurarsi sulla realtà, che è il seme della vera sapienza”. (Karl Rahner, Cose di ogni giorno, 1964).
Resta inossidabile e provocatorio l’ammonimento di Gesù contenuto nel celebre discorso della montagna consegnatoci dall’evangelista Matteo: Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono (Mt 5, 23-24). L’astenersi dalla violenza è prioritario rispetto all’azione di culto fatta a Dio, il quale vuole la riconciliazione tra noi fratelli prima dell’offerta del dono; anche perché la riconciliazione con Lui che nessuno vede è possibile solo per chi sa riconciliarsi con il fratello che tutti vediamo: Se uno dicesse: «Io amo Dio», e odiasse suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede (cf. 1Gv 4,20).
Non possiamo partecipare al rito dell’Eucaristia ma ci resta la quotidianità fatta di relazioni: sono esse il luogo del culto gradito a Dio ed è in esse che il rito trova la veridicità di ciò che sta annunciando.
Antonio il grande, padre del monachesimo, ha sempre cercato di tenere alta l’attenzione su coloro che, all’apparenza molto ferventi, si mostravano distanti dalle vicende della terra e dalla complessità della storia: Se vedi che un giovane monaco con la sua volontà vola verso il cielo, afferralo per i piedi e tiralo giù, poiché non ne ricaverebbe alcun vantaggio[1]. Ogni autentica esperienza di fede, infatti, conduce all’incontro con sé stessi, con la propria realtà e con la storia: il rischio di una fede sganciata dalla vita, di una preghiera che non responsabilizza l’agire umano, condannano il cristiano a compiere il volo di Icaro, che sale velocemente verso il cielo ma altrettanto repentinamente precipita: Studiati di entrare nella stanza del tesoro della tua interiorità, così vedrai la stanza celeste! Infatti, questa e quella sono l’identica realtà – ammonisce Isacco di Ninive.
Il quotidiano, dunque, interpella la nostra umanità ed è il banco di prova della nostra appartenenza comunitaria e della nostra scelta di fede che, quando autentica, mai ci pone in un rapporto de-responsabilizzante o disumanizzante con Dio che ci condurrebbe nella magia e nella superstizione. In effetti, il senso di disorientamento e la paura di queste settimane hanno rivelato che, in molti, il legittimo e doveroso ricorso all’intercessione dei Santi o della Vergine Maria è animato da un approccio al limite della magia e della superstizione, manifestandosi, tra l’altro, con scelte logistiche di dubbio gusto che oscillano tra l’ironico e l’assenza di gusto estetico.
Mai, mai, la grazia di Dio agisce in noi magicamente. La grazia di Dio incontra la libertà umana, la promuove, senza schiacciarla.
È la legge dell’Incarnazione! Caro cardo salutis!
La grazia di Dio è dentro la fatica del crescere come donne e uomini. La vicinanza di Dio, nella quale crediamo e confidiamo, è sempre sostegno ad un cammino di umanizzazione, nella responsabilità e nella libertà. La sua paternità non è paternalismo: e questo occorre ribadirlo per non cadere in facili, e diffusi, spiritualismi.
È la legge dell’Incarnazione! Caro cardo salutis!
Ci è stata dunque restituita, in questi giorni, una quotidianità diversa, nuova, imprevista, a cui non eravamo abituati. Siamo dentro una lunga pausa.
Ha scritto Etty Hillesum nel suo Diario: Bisogna accettare le proprie pause[2]. E si tratta di una vera e propria capacità di accettazione che è sollecitata di questi giorni. Siamo di fronte ad una interruzione dell’ordinarietà del nostro tempo che implica una certa idea di passività, di accoglienza passiva di qualcosa deciso da altri. E di fronte a questo, restiamo perplessi: È un dato di fatto piuttosto strano che proprio cristiani e teologi spesso ritengono il loro lavoro così importante e urgente che si irritano per una interruzione. Credono di servire Dio in questo modo e disprezzano invece la via di Dio tortuosa eppure diritta. Non vogliono saperne di una interruzione del cammino degli uomini. Eppure fa parte della disciplina dell’umiltà (…) non voler decidere del proprio tempo, ma lasciare che lo riempia il Signore (D. Bonhoeffer, La vita comune). Il rallentamento del nostro ritmo consueto può essere un’occasione per guadagnare in profondità la nostra esistenza. La sfida del passaggio dalla corsa alla lentezza può diventare un compito per crescere in umanità.
Abitare le pause vorrà dire rinunciare a vivere in superficie, riuscire a fare un percorso verso la propria interiorità, per rientrare in sé stessi, camminando verso una progressiva interiorizzazione della fede. Questo consentirà una scelta personale e motivata per Gesù Cristo, che sempre rischia di essere sostituita da elementi secondari concepiti erratamente come centrali: L’autentica festa liturgica è anzitutto interiore, silenziosa, calma e sobria, perché è festa della fede. Parlare di festa interiore, di interiorizzazione e di interiorità non vuol dire in alcun modo auspicare un ritorno all’intimismo e tanto meno cedere al rifiuto e al disprezzo dell’insostituibile manifestazione corporale e sensibile che la liturgia implica in quanto azione anche umana e anche destinata all’uomo. Al contrario, rilevare il bisogno di una liturgia più contemplativa significa recuperare il primato dell’interiorità che probabilmente un mal compreso ed eccessivo accento posto sull’esteriorizzazione ha inavvertitamente messo in ombra (G. Boselli, Il senso spirituale della liturgia)
Ecco il dono nascosto in questi giorni: il digiuno da una certa abitudine con Dio, toglierà la polvere dell’ovvietà e dell’inerzia. Dire a Dio “Padre…che sei nei cieli” vorrà affermare una semplice: Tu non sei qui, nelle mie idee, nel mio piccolo mondo; Dio non è dove lo facciamo stare noi.
Il dono di questa Quaresima ci avvicinerà alle sorelle e ai fratelli che abitano i nostri giorni e ci renderà, forse, più vicini anche a noi stessi, più pronti nel rispondere a quella comune vocazione che è diventare ogni giorno sempre di più noi stessi.
Il dono di questa Quaresima, infine – e non è cosa da poco – ci avvicinerà anche alle sorelle e ai fratelli perseguitati e privati, con la forza e la violenza, dell’Eucarestia in tante zone del mondo, smettendola di crederci dei santi solo perché andavamo la domenica a Messa, a dieci minuti da casa, tra una bella colazione e un pranzo abbondante. Spogliaci fino in fondo, o Quaresima del duemilaventi[3]!
[1] Detto di Antonio il grande, citato in I. Smolitsch, Santità e preghiera. Vita e insegnamenti degli starets della santa Russia, Gribaudi, Torino 1984
[2] E. Hillesum, Diario, Adelphi 2013
[3] www.agensir.it, Verso la Pasqua/3, 13 marzo 2020
* assistente diocesano per il Settore giovani di AC
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